mercoledì 5 febbraio 2020

La robiola di Cocconato, una fresca, lattica, bontà


Il suo profumo è lattico, il sapore è dolce, fragrante e piacevolmente aromatico. La robiola di Cocconato è un formaggio PAT a pasta molle prodotto con latte vaccino intero, fermenti lattici, caglio e sale. Di forma piatta e rotonda priva di crosta, è un formaggio fresco di latte vaccino intero e pastorizzato, a pasta molle: rappresenta tutt’ora la tradizione, questa infatti è la robiola che assaporavano i nonni e rallegrava la tavola delle famiglie contadine di Cocconato. La Robiola di Cocconato trae le sue origini dalle tradizioni contadine dei territori collinari astigiani, là dove sono i vigneti a farla da padrone. Come molti altri formaggi, un tempo erano le donne a produrla; la sua produzione semplice e la brevissima stagionatura facevano sì che fosse sempre presente e molto apprezzata sulle tavole degli agricoltori della zona.

Le prime notizie scritte che abbiamo sulla robiola di Cocconato risalgono al 1666. Il 4 Settembre 1666 la “Cesarea maestà signora Imperatrice Margherita d’Austria, piissima, clementissima e sempre augustissima …” nel corso di un suo viaggio in Italia visitò la città di Acqui. In occasione della visita i ducali consorti consegnarono all’Imperatrice un favoloso regalo costituito da un ricchissimo assortimento di vini e cibarie. Nel lungo inventario stilato per l’occasione (e pubblicato da Giuseppe Giorcelli in “Documenti storici del Monferrato”), spiccano due casse, una “…con dentro donzene 28 Rubiole di Coconato”, l’altra “con dentro 22 donzene Rubiole di Coconato” per un totale di ben seicento forme. Gli unici altri formaggi ritenuti degni di comparire al cospetto dell’augusta sovrana furono il “formaggio lodegiano vecchio” (cioè il grana) e il “lodegiano grasso” (probabilmente tipo gorgonzola). Veramente notevole il fatto che il signor Giovanni Vico, gentiluomo casalese, avesse scelto come dono prestigioso le robiole di Cocconato. E’ evidente che la fama, il prestigio e la qualità della Robiola di Cocconato erano decisamente più importanti e stimati rispetto a tutti gli altri latticini prodotti tra Po e appennino Ligure. 
Nel 1477 il medico vercellese Pantaleone da Confienza componeva il suo celebre trattato intitolato “Summa lacticinorum” dedicando un intero capitolo al “caseo de la Mora”. “Questi formaggi si chiamano robiole, e sono piccole forme di circa una libbra, rotonde e piuttosto spesse rispetto la loro dimensione; privi di scorza, trasparenti o traslucidi, soprattutto quando ottimi (…) Si ritrovano nei dominii dei marchesi di Monferrato, e di quelli del Carretto e di Ceva Sono formaggi piuttosto preziosi; si conservano eccellenti anche per due anni, ma di un anno sono migliori, e molti amano consumarli dopo sei o otto mesi (…). Si confezionano con il latte ovino, (…) e in effetti sono chiamati ‘robiole’ solo quelle prodotte con questo tipo di latte; alcuni li adulterano mescolandoli con latte di vacca, e addirittura di capra, il che è ancor peggio.” 
Da notare come, alla stregua di Pantaleone, nel 1815 il DeCanis, erudito astigiano, parli di robiole confezionate con puro latte di pecora “pregevoli le robbiole, che han miglior gusto d’ogni altra che si compone nei circonvicini paesi, a cagione probabilmente delle qualità delle erbe di cui si nodrisce il bestiame e le pecore specialmente, di cui il territorio è abbondante”, che come quattro secoli avanti risultavano squisite sia consumate fresche che stagionate “vecchie”.
La robiola di Cocconato continuò a mantenere fama immutata e solida valenza commerciale ancora a lungo, ma già agli inizi del Novecento l’ormai definitivo prevalere dell’allevamento bovino su quello ovino causò un radicale cambio di tipologia: l’impiego sempre più diffuso del latte vaccino, che doveva diventare ben presto totalizzante, la trasformò in un formaggio fresco, di sapore semplice, poco adatto alla stagionatura. A partire dal secondo dopoguerra la produzione domestica della robiola si ridusse sempre più vistosamente, rivolgendosi ad un utilizzo puramente famigliare.

La produzione della robiola di Cocconato si è ridotta a tal punto che oggi viene prodotta da un solo produttore, il Caseificio Balzi, che segue la lavorazione tradizionale dal 1965. Per la robiola di Cocconato si segue di una metodologia produttiva particolare per le robiole, l’aggiunta di fermenti lattici. Il latte viene coagulato alla temperatura di 38 °C con caglio, con una durata di coagulazione di circa 30 minuti. La rottura della cagliata si effettua con un primo taglio a croce con la lira. Successivamente, dopo una sosta di 15 minuti, si procede con il secondo taglio a noce. Si estrae la cagliata e la si mette negli stampi. Segue una stufatura per 2-3 ore e la salatura a secco una volta per faccia. La stagionatura è breve, circa 5 giorni a 4 °C, questo tempo è necessario alla Robiola di Cocconato per raggiungere il giusto grado di maturazione e cremosità della pasta. Ma perché i fermenti lattici? Sappiamo bene che il latte deve mantenere una carica batterica utile alle fermentazioni che avvengono nelle varie fasi della vita del formaggio. Partendo dal latte crudo, il casaro può decidere di innestare per aumentare la carica batterica. Nel caso di latte pastorizzato, come nella robiola di Cocconato, c’è la possibilità di innestare sia il lattinnesto, sia il sieroinnesto, oppure fermenti lattici liofilizzati o congelati. Questo perché quando una trasformazione casearia applica la pastorizzazione del latte (o la termizzazione), sicuramente la maggior parte dei batteri “dannosi” viene eliminata, ma con loro anche quelli utili. Il rischio è cioè che il latte sia “troppo pulito”, e per ricreare le condizioni di vitalità di partenza bisogna aggiungere appunto i fermenti, definiti anche “innesti” quando sono naturali. Insomma, senza i microrganismi (naturali e “autoctoni” del latte o aggiunti se il latte è troppo pulito) il formaggio non si fa. Nel caso della robiola di Cocconato, i fermenti aggiunti sono gli stessi che si utilizzavano nell’antica produzione artigianale.
Il risultato di questa lavorazione è un formaggio di forma cilindrica a facce irregolari, del diametro di 15 cm alto circa 2 cm. dal gusto dolce e intenso, molle e cremoso in bocca. I profumi e gli aromi sono decisamente lattici, di latte fresco con sentore di yogurt. Al palato si ritrovano ovviamente i fermenti lattici, che le danno una punta acidula. A livello aromatico, si rileva facilmente, secondo le stagioni, il sapore delle erbe del pascolo.

Piccola nota di colore...Ancora oggi è un formaggio molto apprezzato dai consumatori piemontesi, così apprezzato che il poeta dialettale Nino Costa, nella prima metà del Novecento, gli dedicò alcuni versi che svelano anche la leggenda secondo cui sarebbe un rimedio contro il mal d’amore: «E' piacevole da merenda; è una risorsa per colazione, è ugualmente buona nei campi come al tavolo dei signori; piace ai milionari, la cantano i professori, la consigliano i farmacisti per guarire dai mali d'amore. Voi che vivete di porcherie, di acqua tiepida e di pane masticato lasciate perdere le medicine che vi spediscono all'altro mondo: per gli stomaci delicati, per le teste balzane, fate la cura della robiola, della robiola di Cocconato».



Mamma Balzi e lo chef Max Mariola



La Cocconato in un bell'aperitivo
il paese di Cocconato

uno scorcio del paese

le colline di Cocconato

i portici del centro di Cocconato
l'unico produttore è il Caseificio Balzi, e lo trovate qui:

www.caseificiobalzi.it

Il formaggio che ha fatto perdere la testa ai francesi (nel medioevo)


La Robiola di Roccaverano DOP è un formaggio caprino a pasta molle che nasce nei territori del sud della provincia astigiana, al confine con la Liguria, che comprende una ventina di comuni (10 nell’astigiano e 9 nell’alessandrino) il cui più rappresentativo è Roccaverano, nonché l’unico paese in cui, nei secoli, si è venduta la robiola.
Il termine robiola ha matrice tardo-latina, “rubeolus”, che si riferisce al colore rossiccio che alcuni tipi di formaggelle assumono con la stagionatura. Oggi questo termine indica prevalentemente il taglio di dimensione; si riferisce infatti a forme di 200/300 grammi, indipendentemente dal tipo di latte e di caseificazione. Già Plinio il vecchio nel I secolo d.C. citò la Robiola di Roccaverano nelle sue ricerche, e nel IV secolo Pantaleone ne descrisse addirittura il processo produttivo, che poco differiva da quello attuale. Alla fine del diciannovesimo secolo, Don Pistone, un sacerdote della parrocchia di Roccaverano, trascrivendo la storia del paese dal 960 al 1860,  riporta che nei secoli passati per lunghi periodi si tennero fino a 5 fiere annue attraverso le quali si commerciava la robiola, che divenne molto apprezzata e richiesta in Francia; non si richiedeva un formaggio generico, ma un formaggio dalla denominazione e dalle caratteristiche precise. Si può parlare quindi di queste fiere come delle antenate dell’attuale fiera Carrettesca, nonché come di un primitivo centro di esportazione. La conservazione nei secoli scorsi come oggi avveniva in due modi: o sott’olio dentro dei barattoli, mantenendone intatte le caratteristiche, oppure ponendo le forme nella paglia e facendole quindi stagionare, anche se in modo più lento e controllato.

La Robiola di Roccaverano ha la certificazione DOP dal 1996, e questo ne fa il primo caprino DOP in Italia, ma sapete chi fu a decretare la Robiola di Roccaverano prodotto ad origine protetta? Niente di meno che il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che proprio nel marzo di 40 anni fa appose la sua firma sul decreto di riconoscimento. Proprio 40 anni fa nasce il Consorzio dei produttori di Robiola di Roccaverano, ente imprescindibile per la richiesta e l’ottenimento della certificazione DOP.
Il disciplinare prevede che almeno il 50% del latte utilizzato nella produzione sia di capra, perché quando si è ottenuta la DOP il numero di capre presenti in zona non era sufficiente per imporre una percentuale maggiore, ma oggi le capre sul territorio della DOP sono circa 5.000, per una produzione di circa 420.000 formaggette all’anno, e quasi tutte prodotte al 100% con latte di capra. L’alimentazione dei capi è parte fondamentale del disciplinare, come avviene per pochissimi altri formaggi: devono pascolare almeno 6 mesi all’anno, non si possono utilizzare insilati nell’alimentazione, e minimo l’80% del foraggio utilizzato durante l’anno deve provenire dai campi della zona della DOP. Che è una zona collinare brulla, povera di graminacee, ma ricca di altre specie verdi sia erbacee che arboree, poco adatta all’allevamento di animali grossi e grandi consumatori di foraggio come i bovini, motivo per cui, nei secoli, si è rivelata idonea proprio agli allevamenti caprini. Le razze allevate e ammesse dal disciplinare sono la capra di Roccaverano e la camosciata delle Alpi.
Delle 17 aziende che producono Robiola di Roccaverano, ben 16 curano internamente tutta la filiera: dall’allevamento, alla mungitura, alla caseificazione, alla stagionatura, tutto avviene in azienda.
Il logo che uniforma tutti i produttori è contraddistinto da una R e da una torre merlata stilizzata. L’occhiello della R rappresenta una formaggella, mentre la torre merlata è la torre di Roccaverano, che una volta aveva anche un castello di cui ora rimane solo un muro, ma che basta a darci l’idea di come dovesse essere imponente, e quindi importante, nel periodo tardo medievale. La torre è inserita in un percorso escursionistico creato dal Cai, che si chiama “giro delle 5 torri” e che parte da Monastero Bormida, passa per San Giorgio Scarampi, Olmo Gentile, Roccaverano, Vengore, per poi tornare a Monastero Bormida. È un sentiero impegnativo, che farà sentire chi avrà voglia di farlo come un pellegrino di secoli li fa, incluso lo stupore suscitato dai meravigliosi paesaggi. Durante la stagione estiva vengono organizzate escursioni di gruppo con la possibilità di fare parte del percorso, o il ritorno finale al punto di partenza, con dei pulmini.
Sotto il nostro logo compare anche la dicitura pura capra, oppure latte misto, dove il misto può essere di pecora delle Langhe, oppure di vacca, anche se come già detto, sono sempre meno le robiole a latte misto. Sotto alla gamba della R, un fregio colorato giallo e verde richiama il verde dei pascoli e la sinuosità delle colline della zona di produzione.

Ma tornando alla nostra robiola, la Roccaverano è un formaggio a coagulazione acida, lavorato intorno ai 19/20 gradi, che richiede una quantità minima di caglio, non prima che sia iniziato il processo di acidificazione; la coagulazione è lenta, la durata dipende dalla stagione, ma si aggira intorno alle 20 ore; dopodiché la cagliata formata viene delicatamente trasferita nelle fascere senza essere pressata, dove nelle successive 48 ore spurga e viene costantemente girata e salata a secco. Dopo altri 4 giorni può essere venduta come robiola fresca, ma la maturazione ottimale si ha tra i 12 e i 18 giorni, perché intorno ai 15 giorni assume la consistenza cremosa che tanto l’ha fatta apprezzare sulle tavole italiane, e non solo. Esiste poi un piccolo mercato di “vecchie signore”, ovvero robiole con stagionature estreme, che arrivano quasi a stravolgere quanto conosciamo della Robiola di Roccaverano, diventa un formaggio da grattugia dal sapore forte e aggressivo, esaltando i sentori di animale che alla maturazione ottimale sono appena accennati; queste però si trovano solo in loco presso gli spacci aziendali dei produttori, oppure in qualche angolo dei banchetti dei produttori durante l’annuale fiera carrettesca a fine giugno.

Oggi la Robiola di Roccaverano si trova in commercio con una discreta facilità; nel corso dell’ultimo anno il Consorzio ha messo a punto una nuova confezione nata per il trasporto che permette alla Robiola di continuare a stagionare e di “respirare”, maturando in modo uniforme e garantendone quindi la qualità fino alla tavola del consumatore finale. Viene prodotta e venduta tutto l’anno, ma trattandosi di un prodotto di breve stagionatura possiamo dire che la Robiola che è sulle nostre tavole a Natale è un formaggio molto diverso da quello che possiamo gustare in primavera o in tarda estate. Ottimo motivo per assaggiarla, e riassaggiarla, più volte, imparando a conoscere meglio questo piccolo gioiello nascosto e tramandato per secoli nelle colline del sud astigiano.
Ovviamente anche la Robiola di Roccaverano dal 20 al 23 settembre sarà presente a Cheese a Bra, anzi, il 22 settembre, alle ore 13, sarà protagonista di un laboratorio con degustazione ad ingresso gratuito.




il logo della Robiola di Roccaverano
Una robiola di Roccaverano fresca

Le Robiole con la nuova confezione che ne preserva la qualità al meglio

Roccaverano


Suggerimenti per un plateau di formaggi natalizio e non solo


Quando si parla di tripudio di formaggi, non me ne vogliate, ma a me viene in mente la Francia, ma più nello specifico quella che reputo essere la Mecca dei formaggi francesi. In una viuzza piccola, abbellita da un’illuminazione sapiente, e rallegrata dal chiacchiericcio degli avventori dei locali che popolano questa zona di Strasburgo, c’è il tempio degli amanti del formaggio. Da un lato un essenziale negozio di formaggi, la fromagerie Tourrette, due passi più avanti, dirimpetto, un ristorante della stessa proprietà. Sai che novità, direte. O meglio, lo dirà chi non ci è ancora stato. Superata la soglia, eccola: la cloche à fromage più grande del mondo! Inserita nel Guinness dei Primati, alta 1.80 mt e con un diametro di 1.50 mt, pesa quasi 800 kg. Ma è inserita nel Guinness anche per la tecnologia che ha al suo interno: una climatizzazione unica nel settore ristorazione, grazie ad una regolazione igrometrica che unisce refrigerazione e umidificazione, permettendo quindi la preservazione ideale dei formaggi, che qui, non solo si conservano, ma portano a termine il loro affinamento. I tre ripiani sono in marmo, e possono ospitare più di 80 formaggi diversi (mediamente sono 100). Oltre alla scenografia, questo ristorante mette in tavola il formaggio per gli appassionati: una carta cortissima, composta da taglieri di degustazione, 3 tipi di fonduta e 3 tipi di raclette preparate con formaggi diversi. Per la raclette viene servito ¼ di forma a porzione, ma non vi preoccupate di non averne a sufficienza: se lo finite ve ne portano un altro pezzo, incluso nel prezzo! Quindi, se volete fare un bel regalo di Natale a un appassionato di formaggi, prenotate un tavolo a La cloche à Fromage e poi, di conseguenza, prenotate il volo e andate a Strasburgo, che sotto Natale è ancora più bella!
Ma se la famiglia e la tradizione vi trattengono a casa, non vi rattristate. Non saremo certo al livello della cloche di Strasburgo, ma possiamo mettere insieme un tagliere di formaggi, seguendo le regole auree dei nostri vicini di casa, che ci farà passare il pranzo sdegnando le portate principali perché in trepidante attesa del dessert (che come sapete è l’ultima portata del pasto, sia esso frutta, formaggio, o dolce… a Natale forse tutti e tre!).
Innanzitutto bisogna considerare che il gusto degli invitati (e quello personale) influenzano molto il piatto di formaggi che andrete a comporre, quindi cercherò di darvi la regola generale con qualche spunto che poi adatterete ai vostri palati. La famiglie francesi sono un po’ diverse dalle nostre, e sono sei: la crosta fiorita, la crosta lavata, l’erborinato, la pasta pressata cotta, la pasta pressata cruda, il caprino. Ma c’è un concorrente fuori concorso, e che giunge in nostro soccorso per arrivare al numero dispari di rito e per dare un tocco invernale al tutto: la pasta fusa. Eh si, questa è la grande differenza: i formaggi come il Mont D’Or vengono consumati quasi sempre passati al forno, il che fa di loro, di fatto, una settima categoria.
Detto questo, poi ci sono alcuni formaggi irrinunciabili: ad esempio un Comtè, che si caratterizza per la sua dolcezza, e un Roquefort, per il suo carattere, e (almeno) un caprino, che ci darà un po’ di freschezza.
Per gli amanti della dolcezza, si può optare per un Brillat Savarin (IGP da soli 2 anni), un formaggio tripla panna a pasta molle ottenuto da una cagliata lattica, prodotto con latte vaccino e panna di latte vaccino, iperdolce al palato che si mangia giovane e fresco. Per avere un po’ più di complessità, sul nostro tagliere dolce, possiamo proporre il St Marcelin, una volta prodotto con latte di capra, è un formaggio di piccole dimensioni ottenuto da latte vaccino, con pasta molle e crosta fiorita, molto morbido, super cremoso e dal gusto fresco e un po’ salato. Per restare nei grandi classici, potete optare anche per un Comtè giovane, che è una formaggio di latte vaccino, grasso, a pasta semidura e compatta, che stagiona minimo 120 giorni. Il Comtè è molto conosciuto anche perché la Fondue Comtè è la variante più classica della fonduta in Svizzera.
Per i palati che amano il carattere, possiamo andarci giù pesante! Iniziamo con l’Epoisses, un formaggio che Brillat-Savarin (non il formaggio, il gastronomo!) dichiarò il re dei formaggi già nel 1825, dal gusto molto deciso, di latte vaccino, formaggio grasso di breve stagionatura (1 mese) a pasta molle e crosta lavata, dal gusto forte e fruttato, che in bocca è morbido e liscio. Possiamo accostargli il Livarot, un formaggio vaccino a pasta molle, che ben rappresenta i sapori del suo territorio, la Normandia: forte e pronunciato.
Per gli irrinunciabili del caprino, opterei per un Clacbitou (che ha anche un bel nome! In dialetto Charolais, da dove proviene, significa semplicemente caprino) con la sua consistenza densa, compatta e la sua buona lunghezza in bocca. Oppure il Pouligny Saint-Pierre dalla tipica forma tronco-piramidale: la stagionatura in bianco (fatta con l'aggiunta di muffa Géotricum) rende la pasta del formaggio fondente e gli conferisce un sapore acidulo, leggermente salato, con un fine aroma di frutta secca; la stagionatura in blu (fatta con l'aggiunta di muffe Penicillium album) dona un sapore più forte e maturo, con un leggero retrogusto di nocciola e rende la pasta più soda.
Per chi non ama rischiare, i vaccini. Orientiamoci su una buona Tomme de Savoie, un formaggio vaccino, grasso, a pasta semidura, stagionato almeno 6 settimane, per la consistenza piacevole ed il gusto che si evolve nel tempo. Per fare un po’ di scena, dato che è Natale, servirei sicuramente una Tête de Moine, un formaggio di latte vaccino d’alpeggio, a pasta semidura, che grazie ai suoi allegri riccioli ottenuti con la girolle, la tipica lama rotante che si usa per servire questo formaggio, renderebbe gioiosa anche la Quaresima!  Per chiudere in bellezza, un Saint Nectaire, a latte crudo intero, per la sua ricchezza e la sua intensità.

Qualsiasi gusto preferisca il vostro palato, quella con i formaggi è sempre una bella conclusione. E se vi pare troppo, potete sempre impostare il pranzo di Santo Stefano sui formaggi e godervi il vostro tagliere come protagonista. In fondo i francesi dicono che a Natale ci si deve riempire il frigorifero di formaggi perché saranno i pasti pronti della settimana successiva!


Riporto qui sotto l'articolo per intero uscito sulla rivista InForma...