mercoledì 5 febbraio 2020

La robiola di Cocconato, una fresca, lattica, bontà


Il suo profumo è lattico, il sapore è dolce, fragrante e piacevolmente aromatico. La robiola di Cocconato è un formaggio PAT a pasta molle prodotto con latte vaccino intero, fermenti lattici, caglio e sale. Di forma piatta e rotonda priva di crosta, è un formaggio fresco di latte vaccino intero e pastorizzato, a pasta molle: rappresenta tutt’ora la tradizione, questa infatti è la robiola che assaporavano i nonni e rallegrava la tavola delle famiglie contadine di Cocconato. La Robiola di Cocconato trae le sue origini dalle tradizioni contadine dei territori collinari astigiani, là dove sono i vigneti a farla da padrone. Come molti altri formaggi, un tempo erano le donne a produrla; la sua produzione semplice e la brevissima stagionatura facevano sì che fosse sempre presente e molto apprezzata sulle tavole degli agricoltori della zona.

Le prime notizie scritte che abbiamo sulla robiola di Cocconato risalgono al 1666. Il 4 Settembre 1666 la “Cesarea maestà signora Imperatrice Margherita d’Austria, piissima, clementissima e sempre augustissima …” nel corso di un suo viaggio in Italia visitò la città di Acqui. In occasione della visita i ducali consorti consegnarono all’Imperatrice un favoloso regalo costituito da un ricchissimo assortimento di vini e cibarie. Nel lungo inventario stilato per l’occasione (e pubblicato da Giuseppe Giorcelli in “Documenti storici del Monferrato”), spiccano due casse, una “…con dentro donzene 28 Rubiole di Coconato”, l’altra “con dentro 22 donzene Rubiole di Coconato” per un totale di ben seicento forme. Gli unici altri formaggi ritenuti degni di comparire al cospetto dell’augusta sovrana furono il “formaggio lodegiano vecchio” (cioè il grana) e il “lodegiano grasso” (probabilmente tipo gorgonzola). Veramente notevole il fatto che il signor Giovanni Vico, gentiluomo casalese, avesse scelto come dono prestigioso le robiole di Cocconato. E’ evidente che la fama, il prestigio e la qualità della Robiola di Cocconato erano decisamente più importanti e stimati rispetto a tutti gli altri latticini prodotti tra Po e appennino Ligure. 
Nel 1477 il medico vercellese Pantaleone da Confienza componeva il suo celebre trattato intitolato “Summa lacticinorum” dedicando un intero capitolo al “caseo de la Mora”. “Questi formaggi si chiamano robiole, e sono piccole forme di circa una libbra, rotonde e piuttosto spesse rispetto la loro dimensione; privi di scorza, trasparenti o traslucidi, soprattutto quando ottimi (…) Si ritrovano nei dominii dei marchesi di Monferrato, e di quelli del Carretto e di Ceva Sono formaggi piuttosto preziosi; si conservano eccellenti anche per due anni, ma di un anno sono migliori, e molti amano consumarli dopo sei o otto mesi (…). Si confezionano con il latte ovino, (…) e in effetti sono chiamati ‘robiole’ solo quelle prodotte con questo tipo di latte; alcuni li adulterano mescolandoli con latte di vacca, e addirittura di capra, il che è ancor peggio.” 
Da notare come, alla stregua di Pantaleone, nel 1815 il DeCanis, erudito astigiano, parli di robiole confezionate con puro latte di pecora “pregevoli le robbiole, che han miglior gusto d’ogni altra che si compone nei circonvicini paesi, a cagione probabilmente delle qualità delle erbe di cui si nodrisce il bestiame e le pecore specialmente, di cui il territorio è abbondante”, che come quattro secoli avanti risultavano squisite sia consumate fresche che stagionate “vecchie”.
La robiola di Cocconato continuò a mantenere fama immutata e solida valenza commerciale ancora a lungo, ma già agli inizi del Novecento l’ormai definitivo prevalere dell’allevamento bovino su quello ovino causò un radicale cambio di tipologia: l’impiego sempre più diffuso del latte vaccino, che doveva diventare ben presto totalizzante, la trasformò in un formaggio fresco, di sapore semplice, poco adatto alla stagionatura. A partire dal secondo dopoguerra la produzione domestica della robiola si ridusse sempre più vistosamente, rivolgendosi ad un utilizzo puramente famigliare.

La produzione della robiola di Cocconato si è ridotta a tal punto che oggi viene prodotta da un solo produttore, il Caseificio Balzi, che segue la lavorazione tradizionale dal 1965. Per la robiola di Cocconato si segue di una metodologia produttiva particolare per le robiole, l’aggiunta di fermenti lattici. Il latte viene coagulato alla temperatura di 38 °C con caglio, con una durata di coagulazione di circa 30 minuti. La rottura della cagliata si effettua con un primo taglio a croce con la lira. Successivamente, dopo una sosta di 15 minuti, si procede con il secondo taglio a noce. Si estrae la cagliata e la si mette negli stampi. Segue una stufatura per 2-3 ore e la salatura a secco una volta per faccia. La stagionatura è breve, circa 5 giorni a 4 °C, questo tempo è necessario alla Robiola di Cocconato per raggiungere il giusto grado di maturazione e cremosità della pasta. Ma perché i fermenti lattici? Sappiamo bene che il latte deve mantenere una carica batterica utile alle fermentazioni che avvengono nelle varie fasi della vita del formaggio. Partendo dal latte crudo, il casaro può decidere di innestare per aumentare la carica batterica. Nel caso di latte pastorizzato, come nella robiola di Cocconato, c’è la possibilità di innestare sia il lattinnesto, sia il sieroinnesto, oppure fermenti lattici liofilizzati o congelati. Questo perché quando una trasformazione casearia applica la pastorizzazione del latte (o la termizzazione), sicuramente la maggior parte dei batteri “dannosi” viene eliminata, ma con loro anche quelli utili. Il rischio è cioè che il latte sia “troppo pulito”, e per ricreare le condizioni di vitalità di partenza bisogna aggiungere appunto i fermenti, definiti anche “innesti” quando sono naturali. Insomma, senza i microrganismi (naturali e “autoctoni” del latte o aggiunti se il latte è troppo pulito) il formaggio non si fa. Nel caso della robiola di Cocconato, i fermenti aggiunti sono gli stessi che si utilizzavano nell’antica produzione artigianale.
Il risultato di questa lavorazione è un formaggio di forma cilindrica a facce irregolari, del diametro di 15 cm alto circa 2 cm. dal gusto dolce e intenso, molle e cremoso in bocca. I profumi e gli aromi sono decisamente lattici, di latte fresco con sentore di yogurt. Al palato si ritrovano ovviamente i fermenti lattici, che le danno una punta acidula. A livello aromatico, si rileva facilmente, secondo le stagioni, il sapore delle erbe del pascolo.

Piccola nota di colore...Ancora oggi è un formaggio molto apprezzato dai consumatori piemontesi, così apprezzato che il poeta dialettale Nino Costa, nella prima metà del Novecento, gli dedicò alcuni versi che svelano anche la leggenda secondo cui sarebbe un rimedio contro il mal d’amore: «E' piacevole da merenda; è una risorsa per colazione, è ugualmente buona nei campi come al tavolo dei signori; piace ai milionari, la cantano i professori, la consigliano i farmacisti per guarire dai mali d'amore. Voi che vivete di porcherie, di acqua tiepida e di pane masticato lasciate perdere le medicine che vi spediscono all'altro mondo: per gli stomaci delicati, per le teste balzane, fate la cura della robiola, della robiola di Cocconato».



Mamma Balzi e lo chef Max Mariola



La Cocconato in un bell'aperitivo
il paese di Cocconato

uno scorcio del paese

le colline di Cocconato

i portici del centro di Cocconato
l'unico produttore è il Caseificio Balzi, e lo trovate qui:

www.caseificiobalzi.it

Il formaggio che ha fatto perdere la testa ai francesi (nel medioevo)


La Robiola di Roccaverano DOP è un formaggio caprino a pasta molle che nasce nei territori del sud della provincia astigiana, al confine con la Liguria, che comprende una ventina di comuni (10 nell’astigiano e 9 nell’alessandrino) il cui più rappresentativo è Roccaverano, nonché l’unico paese in cui, nei secoli, si è venduta la robiola.
Il termine robiola ha matrice tardo-latina, “rubeolus”, che si riferisce al colore rossiccio che alcuni tipi di formaggelle assumono con la stagionatura. Oggi questo termine indica prevalentemente il taglio di dimensione; si riferisce infatti a forme di 200/300 grammi, indipendentemente dal tipo di latte e di caseificazione. Già Plinio il vecchio nel I secolo d.C. citò la Robiola di Roccaverano nelle sue ricerche, e nel IV secolo Pantaleone ne descrisse addirittura il processo produttivo, che poco differiva da quello attuale. Alla fine del diciannovesimo secolo, Don Pistone, un sacerdote della parrocchia di Roccaverano, trascrivendo la storia del paese dal 960 al 1860,  riporta che nei secoli passati per lunghi periodi si tennero fino a 5 fiere annue attraverso le quali si commerciava la robiola, che divenne molto apprezzata e richiesta in Francia; non si richiedeva un formaggio generico, ma un formaggio dalla denominazione e dalle caratteristiche precise. Si può parlare quindi di queste fiere come delle antenate dell’attuale fiera Carrettesca, nonché come di un primitivo centro di esportazione. La conservazione nei secoli scorsi come oggi avveniva in due modi: o sott’olio dentro dei barattoli, mantenendone intatte le caratteristiche, oppure ponendo le forme nella paglia e facendole quindi stagionare, anche se in modo più lento e controllato.

La Robiola di Roccaverano ha la certificazione DOP dal 1996, e questo ne fa il primo caprino DOP in Italia, ma sapete chi fu a decretare la Robiola di Roccaverano prodotto ad origine protetta? Niente di meno che il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che proprio nel marzo di 40 anni fa appose la sua firma sul decreto di riconoscimento. Proprio 40 anni fa nasce il Consorzio dei produttori di Robiola di Roccaverano, ente imprescindibile per la richiesta e l’ottenimento della certificazione DOP.
Il disciplinare prevede che almeno il 50% del latte utilizzato nella produzione sia di capra, perché quando si è ottenuta la DOP il numero di capre presenti in zona non era sufficiente per imporre una percentuale maggiore, ma oggi le capre sul territorio della DOP sono circa 5.000, per una produzione di circa 420.000 formaggette all’anno, e quasi tutte prodotte al 100% con latte di capra. L’alimentazione dei capi è parte fondamentale del disciplinare, come avviene per pochissimi altri formaggi: devono pascolare almeno 6 mesi all’anno, non si possono utilizzare insilati nell’alimentazione, e minimo l’80% del foraggio utilizzato durante l’anno deve provenire dai campi della zona della DOP. Che è una zona collinare brulla, povera di graminacee, ma ricca di altre specie verdi sia erbacee che arboree, poco adatta all’allevamento di animali grossi e grandi consumatori di foraggio come i bovini, motivo per cui, nei secoli, si è rivelata idonea proprio agli allevamenti caprini. Le razze allevate e ammesse dal disciplinare sono la capra di Roccaverano e la camosciata delle Alpi.
Delle 17 aziende che producono Robiola di Roccaverano, ben 16 curano internamente tutta la filiera: dall’allevamento, alla mungitura, alla caseificazione, alla stagionatura, tutto avviene in azienda.
Il logo che uniforma tutti i produttori è contraddistinto da una R e da una torre merlata stilizzata. L’occhiello della R rappresenta una formaggella, mentre la torre merlata è la torre di Roccaverano, che una volta aveva anche un castello di cui ora rimane solo un muro, ma che basta a darci l’idea di come dovesse essere imponente, e quindi importante, nel periodo tardo medievale. La torre è inserita in un percorso escursionistico creato dal Cai, che si chiama “giro delle 5 torri” e che parte da Monastero Bormida, passa per San Giorgio Scarampi, Olmo Gentile, Roccaverano, Vengore, per poi tornare a Monastero Bormida. È un sentiero impegnativo, che farà sentire chi avrà voglia di farlo come un pellegrino di secoli li fa, incluso lo stupore suscitato dai meravigliosi paesaggi. Durante la stagione estiva vengono organizzate escursioni di gruppo con la possibilità di fare parte del percorso, o il ritorno finale al punto di partenza, con dei pulmini.
Sotto il nostro logo compare anche la dicitura pura capra, oppure latte misto, dove il misto può essere di pecora delle Langhe, oppure di vacca, anche se come già detto, sono sempre meno le robiole a latte misto. Sotto alla gamba della R, un fregio colorato giallo e verde richiama il verde dei pascoli e la sinuosità delle colline della zona di produzione.

Ma tornando alla nostra robiola, la Roccaverano è un formaggio a coagulazione acida, lavorato intorno ai 19/20 gradi, che richiede una quantità minima di caglio, non prima che sia iniziato il processo di acidificazione; la coagulazione è lenta, la durata dipende dalla stagione, ma si aggira intorno alle 20 ore; dopodiché la cagliata formata viene delicatamente trasferita nelle fascere senza essere pressata, dove nelle successive 48 ore spurga e viene costantemente girata e salata a secco. Dopo altri 4 giorni può essere venduta come robiola fresca, ma la maturazione ottimale si ha tra i 12 e i 18 giorni, perché intorno ai 15 giorni assume la consistenza cremosa che tanto l’ha fatta apprezzare sulle tavole italiane, e non solo. Esiste poi un piccolo mercato di “vecchie signore”, ovvero robiole con stagionature estreme, che arrivano quasi a stravolgere quanto conosciamo della Robiola di Roccaverano, diventa un formaggio da grattugia dal sapore forte e aggressivo, esaltando i sentori di animale che alla maturazione ottimale sono appena accennati; queste però si trovano solo in loco presso gli spacci aziendali dei produttori, oppure in qualche angolo dei banchetti dei produttori durante l’annuale fiera carrettesca a fine giugno.

Oggi la Robiola di Roccaverano si trova in commercio con una discreta facilità; nel corso dell’ultimo anno il Consorzio ha messo a punto una nuova confezione nata per il trasporto che permette alla Robiola di continuare a stagionare e di “respirare”, maturando in modo uniforme e garantendone quindi la qualità fino alla tavola del consumatore finale. Viene prodotta e venduta tutto l’anno, ma trattandosi di un prodotto di breve stagionatura possiamo dire che la Robiola che è sulle nostre tavole a Natale è un formaggio molto diverso da quello che possiamo gustare in primavera o in tarda estate. Ottimo motivo per assaggiarla, e riassaggiarla, più volte, imparando a conoscere meglio questo piccolo gioiello nascosto e tramandato per secoli nelle colline del sud astigiano.
Ovviamente anche la Robiola di Roccaverano dal 20 al 23 settembre sarà presente a Cheese a Bra, anzi, il 22 settembre, alle ore 13, sarà protagonista di un laboratorio con degustazione ad ingresso gratuito.




il logo della Robiola di Roccaverano
Una robiola di Roccaverano fresca

Le Robiole con la nuova confezione che ne preserva la qualità al meglio

Roccaverano


Suggerimenti per un plateau di formaggi natalizio e non solo


Quando si parla di tripudio di formaggi, non me ne vogliate, ma a me viene in mente la Francia, ma più nello specifico quella che reputo essere la Mecca dei formaggi francesi. In una viuzza piccola, abbellita da un’illuminazione sapiente, e rallegrata dal chiacchiericcio degli avventori dei locali che popolano questa zona di Strasburgo, c’è il tempio degli amanti del formaggio. Da un lato un essenziale negozio di formaggi, la fromagerie Tourrette, due passi più avanti, dirimpetto, un ristorante della stessa proprietà. Sai che novità, direte. O meglio, lo dirà chi non ci è ancora stato. Superata la soglia, eccola: la cloche à fromage più grande del mondo! Inserita nel Guinness dei Primati, alta 1.80 mt e con un diametro di 1.50 mt, pesa quasi 800 kg. Ma è inserita nel Guinness anche per la tecnologia che ha al suo interno: una climatizzazione unica nel settore ristorazione, grazie ad una regolazione igrometrica che unisce refrigerazione e umidificazione, permettendo quindi la preservazione ideale dei formaggi, che qui, non solo si conservano, ma portano a termine il loro affinamento. I tre ripiani sono in marmo, e possono ospitare più di 80 formaggi diversi (mediamente sono 100). Oltre alla scenografia, questo ristorante mette in tavola il formaggio per gli appassionati: una carta cortissima, composta da taglieri di degustazione, 3 tipi di fonduta e 3 tipi di raclette preparate con formaggi diversi. Per la raclette viene servito ¼ di forma a porzione, ma non vi preoccupate di non averne a sufficienza: se lo finite ve ne portano un altro pezzo, incluso nel prezzo! Quindi, se volete fare un bel regalo di Natale a un appassionato di formaggi, prenotate un tavolo a La cloche à Fromage e poi, di conseguenza, prenotate il volo e andate a Strasburgo, che sotto Natale è ancora più bella!
Ma se la famiglia e la tradizione vi trattengono a casa, non vi rattristate. Non saremo certo al livello della cloche di Strasburgo, ma possiamo mettere insieme un tagliere di formaggi, seguendo le regole auree dei nostri vicini di casa, che ci farà passare il pranzo sdegnando le portate principali perché in trepidante attesa del dessert (che come sapete è l’ultima portata del pasto, sia esso frutta, formaggio, o dolce… a Natale forse tutti e tre!).
Innanzitutto bisogna considerare che il gusto degli invitati (e quello personale) influenzano molto il piatto di formaggi che andrete a comporre, quindi cercherò di darvi la regola generale con qualche spunto che poi adatterete ai vostri palati. La famiglie francesi sono un po’ diverse dalle nostre, e sono sei: la crosta fiorita, la crosta lavata, l’erborinato, la pasta pressata cotta, la pasta pressata cruda, il caprino. Ma c’è un concorrente fuori concorso, e che giunge in nostro soccorso per arrivare al numero dispari di rito e per dare un tocco invernale al tutto: la pasta fusa. Eh si, questa è la grande differenza: i formaggi come il Mont D’Or vengono consumati quasi sempre passati al forno, il che fa di loro, di fatto, una settima categoria.
Detto questo, poi ci sono alcuni formaggi irrinunciabili: ad esempio un Comtè, che si caratterizza per la sua dolcezza, e un Roquefort, per il suo carattere, e (almeno) un caprino, che ci darà un po’ di freschezza.
Per gli amanti della dolcezza, si può optare per un Brillat Savarin (IGP da soli 2 anni), un formaggio tripla panna a pasta molle ottenuto da una cagliata lattica, prodotto con latte vaccino e panna di latte vaccino, iperdolce al palato che si mangia giovane e fresco. Per avere un po’ più di complessità, sul nostro tagliere dolce, possiamo proporre il St Marcelin, una volta prodotto con latte di capra, è un formaggio di piccole dimensioni ottenuto da latte vaccino, con pasta molle e crosta fiorita, molto morbido, super cremoso e dal gusto fresco e un po’ salato. Per restare nei grandi classici, potete optare anche per un Comtè giovane, che è una formaggio di latte vaccino, grasso, a pasta semidura e compatta, che stagiona minimo 120 giorni. Il Comtè è molto conosciuto anche perché la Fondue Comtè è la variante più classica della fonduta in Svizzera.
Per i palati che amano il carattere, possiamo andarci giù pesante! Iniziamo con l’Epoisses, un formaggio che Brillat-Savarin (non il formaggio, il gastronomo!) dichiarò il re dei formaggi già nel 1825, dal gusto molto deciso, di latte vaccino, formaggio grasso di breve stagionatura (1 mese) a pasta molle e crosta lavata, dal gusto forte e fruttato, che in bocca è morbido e liscio. Possiamo accostargli il Livarot, un formaggio vaccino a pasta molle, che ben rappresenta i sapori del suo territorio, la Normandia: forte e pronunciato.
Per gli irrinunciabili del caprino, opterei per un Clacbitou (che ha anche un bel nome! In dialetto Charolais, da dove proviene, significa semplicemente caprino) con la sua consistenza densa, compatta e la sua buona lunghezza in bocca. Oppure il Pouligny Saint-Pierre dalla tipica forma tronco-piramidale: la stagionatura in bianco (fatta con l'aggiunta di muffa Géotricum) rende la pasta del formaggio fondente e gli conferisce un sapore acidulo, leggermente salato, con un fine aroma di frutta secca; la stagionatura in blu (fatta con l'aggiunta di muffe Penicillium album) dona un sapore più forte e maturo, con un leggero retrogusto di nocciola e rende la pasta più soda.
Per chi non ama rischiare, i vaccini. Orientiamoci su una buona Tomme de Savoie, un formaggio vaccino, grasso, a pasta semidura, stagionato almeno 6 settimane, per la consistenza piacevole ed il gusto che si evolve nel tempo. Per fare un po’ di scena, dato che è Natale, servirei sicuramente una Tête de Moine, un formaggio di latte vaccino d’alpeggio, a pasta semidura, che grazie ai suoi allegri riccioli ottenuti con la girolle, la tipica lama rotante che si usa per servire questo formaggio, renderebbe gioiosa anche la Quaresima!  Per chiudere in bellezza, un Saint Nectaire, a latte crudo intero, per la sua ricchezza e la sua intensità.

Qualsiasi gusto preferisca il vostro palato, quella con i formaggi è sempre una bella conclusione. E se vi pare troppo, potete sempre impostare il pranzo di Santo Stefano sui formaggi e godervi il vostro tagliere come protagonista. In fondo i francesi dicono che a Natale ci si deve riempire il frigorifero di formaggi perché saranno i pasti pronti della settimana successiva!


Riporto qui sotto l'articolo per intero uscito sulla rivista InForma...



martedì 30 luglio 2019

La seupa à la valepelentse

... si, perchè si parla di formaggi, ma non solo. Volgarmente chiamata zuppa alla valpellinenze, da Valpelline, il paese che ne rivendica la proprietà intellettuale, la seupa è un piatto povero col sapore forte e genuino tipico dei piatti d'altri tempi. Un piatto povero, si, ma con ingredienti che oggi, soprattutto per chi non abita in Val d'Aosta, lo rendono quasi una portata da ristorante stellato.


Siamo in Val d'Aosta, poco lontano da Aosta, a Valpelline, a 964 metri s.l.m. nell'omonima valle, che un tempo era in mano ai signori di Porta Sant'Orso, nel ducato dei Savoia. Qui, nel Sette-Ottocento, si lavorava il rame proveniente da una vicina miniera, ma a farla da padrone è sempre stato l'allevamento, con la conseguente caseificazione e quindi, la Fontina.
Trattandosi di un luogo che nell'ottocento era molto isolato, l'economia locale si basava prevalentemente su cosa era disponibile in zona, quindi uno dei piatti tipici della tradizione era, come come spessa accadeva, un piatto unico, sostanzioso e nutriente, fatto con il pane e il formaggio. Il pane, tradizionalmente di segale, ed il formaggio locale, la Fontina.

La ricetta è semplice e la lista ingredienti corta: pane di segale, burro, fontina DOP e brodo vegetale.
Si procede come per fare una lasagna: si imburra abbondantemente una teglia, e poi via, pane raffermo, fontina, pane, fontina,... alla fine si bagna col brodo e poi si fa gratinare in forno.

La seupa à la valepelentse ha ottenuto la De.Co nel 2007, e questa è la ricetta  che si mangia a Valpelline, ma molto diffusa, anche più dell'originale, è la variante con il cavolo, che viene fatto bollire e si inframezza agli strati di pane e fontina (finendo sempre con la fontina, mi raccomando!!). La differenza principale, oltre che nel gusto ovviamente, è che la seupa originale risulta compatta al punto da essere servita con la forchetta, e non ha praticamente parte liquida, mentre la variante con il cavolo mantiene una consistenza semiliquida che la avvicina di più all'idea di zuppa che ci si può figurare.
Inutile sottolineare che entrambe le versioni sono quello che nella mia idea più si avvicina al comfort food: un cibo per il cuore e per l'animo oltre che per lo stomaco, che ti coccola e ti abbraccia, la cui sola vista, spesso, strappa un enorme sorriso.

Trattandosi quindi di uno dei miei piatti preferiti, si parte alla volta della festa della seupa, quasi in pellegrinaggio. L'organizzazione è perfetta, una macchina ben collaudata: tre tensostrutture sotto cui ripararsi (dal sole e dalla pioggia), una enorme cucina, alla fine di una (altrettanto enorme) coda. In 5 minuti facciamo il biglietto e prendiamo un menu completo composto dalla seupa, il secondo (salsiccette in umido con piselli e contorno a scelta) e un dessert (alla francese, a scelta dolce o formaggio... ovviamente opto per il formaggio!) a 15 euro, e un piatto di seupa ed un piatto freddo composto da affettati valdostani e formaggi (6 euro l'uno). Il dessert (dolce o formaggio) costerebbe 3 euro preso da solo, cosa secondo me degna di nota perchè, come si vede nelle foto, ci sarà stato un etto e mezzo, due di formaggi valdostani. I prezzi li riporto perchè, a mio avviso, la cosa bella di questa manifestazione è la finalità di promuovere il territorio ed i suoi prodotti tipici: conoscendo i prezzi delle materie prime, e valutando le porzioni abbondantissime che ci sono state servite, non c'è altra spiegazione per il rapporto qualità prezzo così sbilanciato se non la promozione locale!!
Inutile dire che dopo la coda (di circa un'ora) per prendere il  nostro vassoio, eravamo affamatissimi e iperstimolati dai profumi e dai piatti che abbiamo visto passare... ma siamo stati ampiamente ricompensati dalla gentilezza dei volontari e dalla qualità del cibo che ci hanno servito.

E' quasi il nostro turno e finalmente vediamo il banco di servizio!

Porzioni abbondanti servite con grande impegno perchè il formaggio... fila!

Tutte le porzioni devono essere uguali... almeno un metro cubo!

La seupa si scioglie in bocca ed è gratificante anche in una calda giornata di luglio, i salumi valdostani (speck, prosciutto crudo di Saint-Marcel, mocetta, salame e budin) ottimi, a stagionatura perfetta, tagliati magistralmente e in porzione abbondantissima, e i formaggi... beh, davvero ottimi. Oltre alla fontina d'alpeggio (più su nella valle c'è il centro di stagionatura della Fontina del consorzio, oltre a tanti altri magazzini di affinatura privati), ci hanno servito la toma di Gressoney e il Bleu d'Aosta.

Questo è quello che avete se scegliete il menù completo a 15 euro e, come me, decidete di prendere il formaggio anzichè la crostata.

Questo vassoio invece ospita una porzione di seupa e il piatto freddo, con salumi e formaggi valdostani (sono porzioni singole!!)

Dopo questa abbondante mangiata, decidiamo di fare un giro su per la valle, che inizia a salire poco dopo Valpelline, e arriviamo a Bionaz, dove facciamo una sosta ufficialmente per compare il pane nero, ma che si rivela una sorpresa perchè il negozio in cui entriamo di fatto è uno spacci aziendale dell'azienda agricola chez Duclos, che produce prodotti lattiero caseari (dal latte allo yogurt, ai formaggi valdostani DOP e non) e vende salumi e affettati locali. Nello specifico, a Bionaz c'è il magazzino di stagionatura, che si apre ai nostri occhi come lo scrigno di un tesoro...

Il magazzino di stagionatura di Chez Duclos a Bionaz

Il banco con la scelta dei formaggi disponibili (la Fontina era a parte, ma c'era, eccome se c'era!)


Volendo fare un'escursione nel vero senso della parola, e non solo un giro in macchina come ho fatto io, volendo ci sono anche un paio di b&b di charme lungo la valle che potrebbero meritare una sosta.

Che dire... se avete tempo e voglia di organizzare una gita last second, giovedì 1 agosto c'è l'ultima data della festa della seupa, altrimenti tenetelo in agenda per l'anno prossimo, perchè merita davvero!



E, se avete voglia di provare la seupa a casa vostra, seguite la ricetta semplicissima che vi ho dato, ma mi raccomando... pane di segale e Fontina DOP!! Con così pochi ingredienti non sono ammesse licenze!

La chiesa di Oyace che guarda la valle giù verso Valpelline, e poi, Aosta.

Il panorama dal sagrato della chiesa di Oyace.


ah si, un'ultima cosa.... Se vi state chiedendo quanti siano i coperti che si fanno alla sagra della seupa, la risposta esatta non la so, ma... guardate qui:

Montagne e montagne di teglie vuote, piene di acqua per "scrostare" il formaggio, anche se c'era così tanto burro che incrostate non erano di certo!





Link esterni:
http://www.comune.valpelline.ao.it/
https://www.chezduclos.com/it


giovedì 9 maggio 2019

La cà nel prà, un caseificio sperduto nel Monferrato.


Un po’ per moda, un po’ per riscoperta delle antiche tradizioni, da qualche tempo i formaggi di capra si stanno guadagnando le luci della ribalta. Non mi riferisco solo alle DOP, che quando si parla di latte caprino si contano sulle dita di una mano sola, ma anche e soprattutto ai formaggi che sono più o meno parte della tradizione ed ai loro derivati di fantasia. Per questo ho iniziato a guardarmi intorno e ho notato che, almeno per quanto riguarda il Monferrato, splendida zona del Piemonte, ci sono diverse realtà di caseifici di nuova apertura creati e gestiti da giovani entusiasti, che hanno scelto di fare della capra il proprio latte di elezione. Mi piacerebbe accompagnarvi in una piccola passeggiata in alcuni di questi caseifici.

Ho pensato di partire dal caseificio più lontano geograficamente da me, perché si trova nella zona della D.O.P. di latte di capra più rappresentativa del Piemonte; non me ne vogliano le altre, ma la robiola di Roccaverano, benchè il disciplinare ammetta anche latte misto, è una robiola prevalentemente a latte di capra (infatti è prevista la versione 100% latte di capra), e con la Formaggella del Luinese rappresentano le uniche 2 D.O.P. italiane con latte 100% capra. Inoltre, nel caso aveste voglia di vedere da vicino questa realtà, la Fiera Carrettesca di Roccaverano si avvicina (29 e 30 giugno) e sarebbe un buon pretesto per visitare queste zone che, oltre che per i formaggi deliziosi, sono molto piacevoli.

Sono quindi andata a visitare la Cà nel Prà, il cui nome significa la Casa nel prato; e una bella casa e un grande prato ci sono davvero, e fanno da biglietto da visita all’azienda che si affaccia sulla strada che da Alessandria corre giù giù verso il mare, fino a Savona. Luca e Simona sono una coppia originaria di Varese che da una decina d’anni si è appassionata al mondo dei formaggi, e nello specifico dei formaggi di capra. Affascinati dall’idea di produrre il formaggio con la filiera più corta possibile, hanno cercato una zona che avesse una DOP di latte di capra, e nel 2012 hanno deciso di trasferirsi a Spigno Monferrato.

Spigno è nella DOP della Robiola Roccaverano, da cui dista pochissimi chilometri, ed è alla fine della Valle Bormida, che è ancora Piemonte, e Monferrato, ma è già un po’ Liguria, perché tutti i giorni, intorno all’ora di pranzo, soffia il marino, il vento che giunge dal mare e porta aria salmastra che caratterizza le erbe che crescono da queste parti, donando profumi e aromi che rendono unico il latte e i formaggi che ne derivano. Spigno è un piccolo paese che come molti altri si è spopolato nel corso dell’ultimo secolo, ma a differenza di altri borghi più o meno anonimi, è caratterizzato da un piccolo e grazioso centro storico, uno dei più ricchi e signorili dell’Alto Monferrato: palazzi nobiliari, portali in arenaria scolpita, logge e ballatoi segnano un vero e proprio percorso della memoria tra strette vie, archivolti, passaggi aerei, facendoci pensare a ciò che, secoli fa, doveva essere. Da qui, attraversando un antico ponte romano, si giunge all’abbazia romanica che oggi è un’abitazione privata, ma che conserva il suo imponente e rigoroso aspetto esterno intatto e fermo nei secoli.

In questo contesto affascinante, Luca e Simona hanno deciso di trasferirsi, pianificando meticolosamente il loro progetto di filiera corta, che chiamano “dal foraggio al formaggio”. Hanno minuziosamente progettato a tavolino la stalla, facendo in modo che il latte venga agitato e spostato il meno possibile: il latte infatti viene portato dalla mungitrice senza l’ausilio di pompe meccaniche, ma solo grazie al sottovuoto, fino al serbatoio refrigerato, e da qui, per caduta, arriva “a richiesta” direttamente nella caldaia. La struttura chimica del latte di capra fa sì che le micelle di grasso siano molto delicate e sensibili alla rottura per via degli scossoni, e per questo è importante che subisca meno shock possibile.
Ma non solo, la stalla, che ospita anche, con accesso separato, il caseificio, è costruita in modo che il fienile sia direttamente collegato ad essa, e quindi i balloni di fieno vengono portati in stalla e distribuiti alla capre con il forcone. In questa azienda non vengono usate macchine agricole di nessun tipo, e i campi di proprietà (e lavorati da un contadino della zona) sono seminati con una miscela di semi studiata appositamente sulla base dei loro valori nutrizionali e sui gusti delle capre, come Latte, Fulvia, Lucciola e Lanterna, che qui amano ad esempio l’erba a foglia larga. La selezione dei foraggi che vengono acquistati viene fatta solo tra alimenti no OGM, il che permette all’azienda di essere iscritta nel bio-Distretto Suol d'Aleramo.

Le capre sono di razza camosciata, esenti CAEV e brucellosi e tutte iscritte all’albo; la stalla può ospitare 120 capi, ma al momento sono poco meno di 100, in quanto i primi 30 capi sono arrivati a fine 2015 e da allora si stanno riproducendo incrementando l’allevamento. Le capre sono animali curiosi e molto giocherelloni, durante la mia visita alla stalla alcuni capretti sono saltati fuori dai recinti (che sono modulari e rimovibili, quindi permettono di pulire agevolmente e di frequente la lettiera, oltre che permettere alle capre di muoversi liberamente e senza spazi inutilizzati) e si sono avvicinati per prendere le coccole e farsi fare una fotografia. Qui in stalla le capre stanno il minimo indispensabile, perché proprio fuori dalle porte della stalla c’è uno dei pascoli di proprietà dove possono scorrazzare liberamente.
Non solo il caseificio, ma anche la stalla, hanno la certificazione HACCP, e da qui escono delle piccole meraviglie: essendo originari di Varese, Luca e Simona, nel caseificio dei loro sogni, avevano in mente di produrre la Formaggella del Luinese D.O.P., cosa che hanno fatto comunque, anche se non sono in zona: producono rispettando il disciplinare della DOP, con l’unica differenza che mettono la formaggella sottovuoto poco dopo la salatura: così facendo continua a stagionare, in modo più controllato ed uniforme, senza formare una vera e propria crosta, e quindi rimane morbida e completamente bianca anche all’esterno. Oltre alla formaggella producono la Robiola di Spigno, che altro non è che la robiola di Roccaverano, (e qui siamo in piena zona D.O.P. anche se Luca non ha ancora deciso se prendere o meno la D.O.P.), fatta secondo il disciplinare e con il loro latte che, tra gli altri, vendono anche al caseificio di Roccaverano. Producono poi la robiola del Bec, solo in stagione, e una toma prodotta con un procedimento molto simile all’Asiago, ma che è, come tutti gli altri formaggi, al 100% capra. Il prodotto più curioso che ho assaggiato è il Mogrontis, per la cui produzione Luca fa una toma di capra simile alla toma Piemonte, che fa stagionare per circa 2 mesi, che poi viene grattugiata e unita ad altri ingredienti (tra cui aglio, peperoncino e pochissimo pomodoro, solo per colorare). Questa ricetta risale all’epoca romana, quando il formaggio, per motivi di conservazione, veniva fatto stagionare fin quasi a seccarlo, e poi lo si consumava grattugiato e ri-ammorbidito impastandolo con olio e spezie. La ricetta una volta si era diffusa al seguito dei soldati in tutto l’impero romano, ma oggi si conserva ormai solo più a Spingo (dove Luca l’ha ricreata partendo da una ricetta di 200 anni fa, l’ultima traccia conosciuta), e sulle Canarie, dove si chiama Almogronte, e trova alcune varianti nelle spezie che vengono aggiunte. Questo è un vero e proprio caso di archeo-gastronomia!

E’ stata una bella esperienza conoscere meglio la realtà di questo angolo del Monferrato che ci regala da molti anni un’eccellenza tra i formaggi di capra. Spero che la prossima tappa del mio viaggio nei caprini monferrini vi farà scoprire ed apprezzare un altro punto di vista su questa “microarea” del Piemonte.

Luca e Simona


la Robiola di Spigno fresca

La Robiola di Spigno di una ventina di giorni

Luca e una delle caprette nate quest'anno




martedì 15 maggio 2018

Diverse stagionature, razze e montagna... è sempre Parmigiano Reggiano

L'Onaf di Asti ha  avuto modo di organizzare una serata di approfondimento sul tema del Parmigiano Reggiano.
Un approfondimento che in teoria era dedicato a chi di formaggio ne sa, ma che è stato assolutamente comprensibile per tutti.
Ci è voluto un pò per mettere insieme il tutto, anche se il Consorzio del Parmigiano Reggiano è davvero super organizzato per questo genere di eventi, e ci ha aiutato non solo a trovare un bel tema interessante e nuovo, ma ci ha anche offerto dei campioni di degustazione davvero incredibili...

Ma prima vorrei dire qualche curiosità sul Parmigiano Reggiano che ho imparato la sera del 21 aprile...
Lo sapevate ad esempio che nel 1254 nei registri di carico delle navi del porto di Genova si parla di "formaggio di Parma"?
E che nel Decameron, nel 1351, si parla di Parmigiano Reggiano grattugiato? "Et eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n'aveva"

Le origini del Parmigiano Reggiano risalgono al Medioevo e vengono generalmente collocate attorno al XII secolo. Presso i monasteri benedettini e cistercensi di Parma di Reggio Emilia comparvero i primi caselli: grazie all’abbondanza di corsi d’acqua e di ampi pascoli, ben presto in questa zona circoscritta dell’Emilia si diffuse la produzione di un formaggio a pasta dura, ottenuto attraverso la lavorazione del latte in ampie caldaie. Contrariamente a quanto accaduto in passato per le birre d'abbazia che sono anche uno stile di birrificazione ben definito) purtroppo ai giorni nostri non resta nessun formaggio d'abbazia, anche se nel medioevo erano diversi i monasteri in tutta Europa a produrre formaggi.
Nel 1996 nasce la DOP del Parmigiano Reggiano, che  oggi si fa con gli stessi ingredienti di nove secoli fa, negli stessi luoghi, con gli stessi sapienti gesti rituali.
I maestri casari, oggi come una volta, continuano a produrre questo formaggio con il latte della zona d’origine (sono solo 5 province: Parma, Reggio Emilia, Modena, Mantova destra fiume Po, Bologna sinistra fiume Reno), caglio naturale, sale e nessun additivo, in modo artigianale e con la stessa passione e lealtà.
La storia recente del Parmigiano Reggiano è quella dei 335 piccoli caseifici artigianali della zona tipica, rappresentanti di circa 3500 agricoltori-produttori di latte che hanno ottenuto dalla legge il riconoscimento della loro determinazione a conservare inalterato il metodo di lavorazione e l’altissimo livello qualitativo del formaggio.
Nel 2017 sono state prodotte 3.650.000 forme, contro i quasi 5 milioni di forme del Grana Padano. Questo è dovuto al fatto che il disciplinare della DOP tutela, oltre alla zona, al foraggio delle mucche da latte, al tipo di mungitura e di metodologia produttiva, anche la lavorazione manuale, la salatura anch'essa manuale, la pulitura e la stagionatura delle forme.

Oltre al rigido disciplinare del Parmigiano Reggiano, per i prodotti come il Parmigiano Reggiano di Montagna, si aggiungono restrizioni che il consorzio si è auto-imposto, per far sì che i vari produttori di queste micro-enclavi offrano un prodotto il più possibile omogeneo. Questo si traduce ad esempio, in una limitazione precisa di zona  (il decreto europeo prevede una tolleranza di 30 km dalle zone di "montagna", che che poi sono stati ridotti 10 km, ma che per il Consorzio non bastavano: il caseificio e i pascoli di tutti i conferenti del latte devono essere in zone montane), di alimentazione (il 70% minimo dell'alimentazione delle vacche, su base annuale, deve essere proveniente dalla montagna), di stagionatura ( i primi 12 mesi di stagionatura devono essere  tassativamente fatti in montagna) e di tempi di commercializzazione (mai venduto prima dei 24 mesi di stagionatura). Tutto questo porta alla produzione di circa 700.000 forme che possono essere definite Parmigiano Reggiano di Montagna DOP. Noi abbiamo assaggiato un campione del caseificio Borgotaro, che al naso ricordava i pascoli di montagna e in bocca il salato ed il dolce erano perfettamente armonizzati.

Il Parmigiano Reggiano di razza (rossa, bianca o fulva) segue il disciplinare standard, solo che pe rla produzione viene usato il latte di una singola razza di vacca da latte. Le vacche rosse sono la razza originaria del Parmigiano Reggiano, che nel corso degli anni si era persa per via della bassa produttività (si era arrivati a soli 200 capi inscritti al registro degli allevatori). un lavoro di rivalorizzazione della razza e del Parmigiano Reggiano prodotto con il suo latte ha portato oggi a circa 3500 capi iscritti; qui troviamo un tipico esempio di tutela di 2° livello del consorzio, cioè che tutela non solo il disciplinare produttivo, ma anche un livello ulteriore, come ad esempio non solo non si possono usare mangimi insilati, ma nemmeno l'Unifeed, e il parmigiano vacche rosse non si può commercializzare prima dei 24 mesi (anche se il Parmigiano Reggiano si può vendere dopo 12 mesi). Il campione che abbiamo degustato era un 24 mesi vacche rosse del Caseificio Zanelli.
Per le razze, si trova anche il Parmigiano Reggiano di razza bianca modenese, prodotto da un solo caseificio, razza che produce ancora meno della rossa, ed è un latte ricco di K caseina, che porta alla maturazione molto rapida del formaggio; l'unico produttore è Rosola di Zocca. Il Parmigiano Reggiano di razza bruna è molto diffuso nella zona di Parma.

Ci siamo poi dedicati a qualcosa di quasi introvabile, il Parmigiano Reggiano ad altissima stagionatura; entrambi i campioni erano del caseificio Gennari, ed erano un 90 mesi ed un 101 mesi. la scelta di produrre forme destinate all'altissima stagionatura si fa già in fase di produzione, in quanto la percentuale di materia grassa deve essere molto alta per consentire alla forma di conservarsi così a lungo. Sono formaggi "border line", quasi impossibili da trovare se non direttamente presso il caseificio, e molto "aggressivi" al palato: sapidi, salatissimi, con cristalli di tirosina grandi come chicchi di riso che scrocchiano sotto i denti... una assaggio particolare, ma che per chi è appassionato almeno una volta va provato.

E' stata una bella serata, è stato bello organizzarla, ed è stato un vero piacere conosce Aldo Bianchi del Consorzio di tutela Parmigiano Reggiano che ci fatto sbirciare all'interno di questo mondo interessantissimo.



il dottor Aldo Bianchi del Consorzio

si comincia con il primo campione, Parmigiano Reggiano di Montagna

I campioni di Parmigiano Reggiano, dall'alto a sinistra: montagna, vacche rosse, 90 mesi e al centro 101 mesi

il delegato dell'Onaf di Asti Elio Siccardi con Aldo Bianchi


 Si ringraziano, come sempre.... Onaf Asti e il Consorzio Parmigiano Reggiano al cui sito vi rimando per informazioni, eventi, caseifici aperti e mille altre cose.



giovedì 12 ottobre 2017

Cheese 2017... qualche foto

In attesa delle recensioni sui formaggi acquistati, vi lascio qualche foto...